Io e linguaggio (ovvero perché continuiamo a svegliarci la notte)

Per come la intendo io (in questo momento, almeno), poesia è una forma di de-scrizione: c’è un grumo materico/percettivo/esperienziale/cogitale a monte e lo sforzo poietico è quello di cercare di tradurlo. Descrizione perciò in un senso che ingloba ma supera la mimesi e l’ecfrasi (pure forme di dialogo cosa-parola tutt’altro che “semplici”), e che riguarda in generale quella che spesso mi viene da definire arte della nominazione. Per questo motivo è efficace anche una poesia che abbandona del tutto il signi-ficato e si costruisce in puro signi-ficante, dacché se è arte del nome sempre signi-fica, cioè genera segni. Dietro, nel caso estremo, c’è una forma di non detto o non pensato (anche questo di forme multiple e sovrapponibili: inconscio/emotivo/mistico/mnesico/…).

Ecco che lo status di essere-nella-poesia, cioè il periodo fattivo, lungo o breve che sia, di elaborazione e scrittura, è una titanomachia tra persona e linguaggio: spingere al massimo livello di incisività quella che qui ho chiamato de-scrizione, fosse anche questa la cassazione del segno (che è, a sua volta, un signi-ficante). Roba, insomma, che coinvolge – cioè stravolge – realmente l’esserci nella sua interezza, dunque anche il corpo, e che richiede una nuova quiete per dirsi risolta – cioè una poesia de-scritta; oppure una nevrosi.

In questa che è propriamente violenza c’è svegliarsi la notte per appuntare una (1) parola, ripetersi un verso per tutto il giorno. Essere spostati rispetto alla propria lucidità e quotidianità, che nella sfida con la lingua vengono manomesse, elaborate, ricucite (poi di nuovo manomesse).