Un contro-Dantedì in occasione del Dantedì

Quello che meno mi sembra ci ricordiamo di Dante è l’aspetto corrosivo, fustigatore, squilibrato della sua poesia. Non mi riferisco alla straordinaria eterogeneità del suo linguaggio – che pure fa parte del gioco; ma Sanguineti, Eliot, il miglior fabbro… insomma, sappiamo – bensì all’operazione poetica generale che mette in campo: chiamare l’inferno. Che è un inferno oltremondano, terribile, ma – si sa – anche allegorico, quindi terreno, politico, egualmente terribile.

L’inferno – terreno e ultraterreno – è chiamato attraverso la poesia. La poesia è la tecnica di interpretazione della realtà e del suo spessore, quindi anche dell’irrealtà; e contemporaneamente è la tecnica del riscatto, dell’interpretazione dell’esilio, della denuncia nuda e cruda. Nomi e cognomi.

Io (semplice osservatore, vecchio precoce sempre insoddisfatto) temo, temo moltissimo che la poesia si soffochi in se stessa. Gli amici mi dicono: tu scrivi, non ci pensare. E sicuramente sono più saggi di me. Ma il panorama per me è spesso odioso, e una poesia che troppe volte ormai significa fotocopia di sé, missione Amazon, reduplicazione ad libitum della propria masturbatoria vanità, vetrina Instagram, mi fa incazzare a bestia. Perché ci sto dentro anche io, è chiaro. Oggi – neanche le commemorazioni mi piacciono tanto, in realtà, specie quando si esplicano nell’hashtag – oggi, dico, Dante mi ricorda che la poesia è incanto, sì, ma magmatico, ustionante; è questione immaginifica, ma anche politica.
È dire una cosa.