Considerato tra i dischi seminali del post-rock, Laughing stock è il grado massimo di astrazione musicale raggiunto dai Talk Talk. Gli esordi ruotanti attorno alla scena synth pop sono ormai del tutto attraversati e metabolizzati (i dischi centrali della discografia del gruppo avevano questo compito di rottura dall’interno del genere, secondo un percorso di progressiva apertura di spazi e scioglimento della compattezza sonora che caratterizzava Party’s over), e anche i rimasugli strutturali di Spirit of Eden setacciati, ulteriormente smagati. Laughing stock è un disco infatti interamente catapultato in una concezione del suono come ambiente: gli archi, i fiati, i piatti, gli arpeggi, la voce distesa di Hollis sono gli strumenti di fondazione di brani-spazio, oltre la soglia della cosiddetta forma-canzone. Eppure – introiettando anche certe soluzioni del jazz – Laughing stock non si risolve del tutto in un ambient alla Eno, completo vapore; la diluzione dei pezzi dei Talk Talk nasconde una vena inquieta che non viene del tutto soffocata, ed è anzi tessuta con la parte più dolcemente armonica della stratificazione compositiva. Ne emergono, o meglio, vengono allusi e lievemente additati nella loro sommersione, minimi scarti, intervalli ravvicinati, cromatismi e loop (Taphead) che svelano come il flusso sonoro raggiunto dal gruppo all’apice della carriera sia tutt’altro che unidirezionale e monolitico. Come la compattezza sonora li aveva caratterizzati al disco d’esordio, così qui i Talk Talk progettano, dopo la decostruzione, una compattezza nuova e fluida che se analizzata svela la complessità della propria leggerezza, la gamma ricchissima di soluzioni di cui è composta. Un disco immersivo, in grado però di collocare la sfasatura e la dissonanza dentro la più spontanea eleganza.
