Tutte le pratiche della nostra società sono agonistiche. Nella struttura, i meccanismi della concorrenza e della dialettica produzione-consumo esigono una sfida al rialzo. Nella sovrastruttura, il riversarsi quasi integrale della cultura nella sfera del social comporta che ogni azione sia misurabile in termini di apprezzamento/disprezzo – al pari della onnipresenza di una giuria (apparentemente) esperta in ogni campo.
Con questo sistema di critica “al grado zero” (mi piace/non mi piace – ma fb ad esempio è ancora più drastico: mi piace/silenzio), va da sé che tutte le pratiche – certamente anche la letteratura – sono direzionate e influenzate da questa competizione costante e asfissiante.
Ma l’agonismo è del tutto conservatore: è la tecnica di produzione del plusvalore simbolico, e l’agonista spinge per sconfiggere l’avversario in termini meramente quantitativi (più mi piace), senza mai mettere in discussione il sistema per cui corre.
All’opposto dell’agonismo c’è l’antagonismo, che in quanto tale è un valore. Se l’agonismo è la lotta prevista, e dunque presuppone un dato campo (società-social) e uno scarto tra vincitore e sconfitto (dato dal plusvalore simbolico), l’antagonismo è una lotta “contro” – contro un sistema. È lo smascheramento del campo (la società-social sfidata faccia a faccia nel cuore della sua astrazione e inumanità) e il rifiuto della misurazione della performance, il rifiuto del vincitore e del vinto. Proprio in quanto intollerato e imprevisto, l’antagonismo è la posizione più autocentrata, autentica, difficile da raggiungere: sabotare l’agone, disertare tutto.