Voli sognati

D’estate mi piace recuperare anche libri così, mi riportano ad antichissime arsure calabresi, spese in compagnia di Defoe o Stevenson o Verne stesso.
Cinque settimane in pallone, in particolare, mi ha fatto pensare che il sogno umano del volo, la brama di valicare la gravità come atto ultimo dell’uomo che trascende la propria biologia, non sia di una sola specie, ma differenziato e ben definito dal veicolo tramite cui si compie.

Se penso ai fratelli Wright, ad esempio, penso al volo come epica, qualcosa che viene vinto. Lì, sì, effettivamente l’uomo si sovrasta e rompe il vincolo più antico (quello al suolo) attraverso l’ingegno e la forza.
Quello del pallone è invece un sogno diverso, perché il mezzo si eleva, non si lancia; si lascia – semmai – trasportare dalle correnti. La storia di questo romanzo è infatti un continuo tentativo di adeguare il veicolo alle decisioni dell’aria, con pesi e contrappesi; non c’è spinta, e il pallone è quindi un sogno erotico più che epico, il desiderio di essere in balia di un’in-dirigibile (opposto, appunto, al dirigibile).

Tutto un dire, quindi, che i modi in cui si sogna il volo oggi non hanno molto a che fare né con l’epica né con la balia, o almeno così mi sembra. Sono figli anch’essi dell’età delle rappresentazioni.
Uno è il drone: lì il sogno non è del trasporto ma della vista; il drone realizza esattamente il desiderio di guardarsi ancorati a terra e in certa misura di compatirsi come falliti fratelli Wright.
L’altro è il volo di Bezos, nello spazio, diverso anche da quello di Armstrong (cioè dell’uomo che vola e scopre un’altra Terra): questo è il sogno della colonizzazione simbolica, un sogno solo individuale e tutto pirotecnico. Aspirare a far vedere quanto un ricco può permettersi di staccarsi dal suolo, diventare drone senza pilota, sguardo transumano che vi vede tutti minuscoli dal massimo dell’altezza.