L’opposizione insanabile tra attività pratica e attività intellettuale (del tipo, o sai sbattere la calce o sai fare il filosofo) è naturalmente una falsità. Eppure questo stereotipo è ancora profondamente radicato nell’opinione comune: fin da quando abbiamo iniziato a interessarci di “cose astratte” (sic!), abbiamo dovuto (chi più chi meno in base al contesto, ma credo tutti) giustificare la nostra intelligenza, venire a patti con la visione altrui secondo cui se sappiamo “parlare bene” – o scrivere, o formulare un ragionamento, ecc. – automaticamente non siamo in grado di spaccare la legna o distinguere il cilindro dal radiatore.
Considerando il dualismo corpo/anima (cristiano, cartesiano…) e quello cultura alta/bassa (borghese, clericale…) che stanno alle spalle di questa idea, nonché gli stereotipi sui ruoli di genere, credo si possa individuare al nocciolo un nodo che in linea di massima è fatto così:
– chi sostiene che l’attività pratica non possa essere appannaggio degli “intelligenti” e schifa la “cultura”, vuole legittimare il proprio non comprendere i linguaggi “alti”, prova un’inconsapevole invidia di classe perché percepisce inconsciamente che il mondo di cui fa parte è costruito ai danni della classe operaia (ma non rivendica, di solito, una mobilitazione collettiva, bensì un’affermazione individuale e virile)
– chi sostiene che l’attività intellettuale non possa essere appannaggio dei “pratici” e schifa i cantieri, vuole legittimare il proprio privilegio di classe, prova un inconsapevole godimento/senso di colpa verso la propria condizione “fortunata”, che sublima nell’attività intellettuale (ma non rivendica, di solito, una mobilitazione collettiva, bensì un’etica astratta e autogiustificante)
In ogni caso l’asse è spostato dalla critica verso un’ideologia che separa teoria e prassi (mortificando entrambe) a uno scontro tra sconfitti per l’affermazione nervosa della propria miseria.
(Io, per sicurezza, scrivo libri e zappo la terra. E sono povero in entrambi i casi.)
