Elogio dell’analfabetismo

Tra le tante cose, la nostra è anche l’epoca dei tutorial. Ogni forma di sapere e tecnica può essere (apparentemente) appresa da un video YouTube. Questo in linea di massima potrebbe soppiantare nel tempo un tipo di trasmissione (specie delle tecniche della quotidianità, tipo mettere un chiodo o fare la lavatrice) che è di fatto umana, cioè con una persona che lo spiega a un’altra persona. Certo, quel tipo di trasmissione è oggi ancora largamente intriso di virilismo e machismo e forme nevrotiche di autoaffermazione che lo rendono di solito detestabile. Padri vs figli, spesso, più che padri + figli.
Per contro, la trasmissione-tutorial potrebbe sfaldare del tutto, sul piano antropologico, l’idea di trasmissione come consolidamento di una comunità, significato, gruppo. Persone.

Mentre ragionavo su questa impasse, ho pensato che allora, nel frattempo, può essere davvero importante conservarsi un’oasi di analfabetismo, uno spazio in cui mettersi sinceramente alla prova col proprio limite contro le presunte onniscienze. Non in senso efficientista, però – altra faccia del problema – bensì proprio come primitività, inizio.
Io ho trovato questi spazi nell’agricoltura e nel disegno, per esempio, pratiche di cui non sapevo e non so nulla, e che fin dall’inizio ho voluto mantenere così, come una dimensione dove sei perso, senza alcun equipaggiamento. È chiaro poi che l’azione si direziona in parte secondo certi modelli inevitabilmente acquisiti (assunti per anni tramite una TV coloniale, magari); ma, se si prende coscienza di questo, agire nell’analfabetismo di una tecnica diventa reale pratica di riacquisizione di quel limite che il tutorial ti illude di superare. Imparare senza nessun a priori come effettiva origine. Profondo corpo a corpo – fisicamente, proprio – con quello che non sai.

«Perciò il saggio pospone se stesso, ma è sempre davanti; esclude se stesso, ma si tiene lontano dai pericoli. Non è forse perché è senza fini personali che può realizzare i propri fini?»
(Tao Tê Ching, VII)