Alessio Alessandrini da Somiglia più all’urlo di un animale a I congiurati del bosco

In che modo si può essere dentro il corpo – nella sua evoluzione/decadenza – e insieme fuori dal mondo – cioè dalla società dei ruoli predefiniti? Gli ultimi due libri di Alessio Alessandrini – Somiglia più all’urlo di un animale e I congiurati del bosco (2014 e 2019, entrambi usciti per Italic) – mi sembrano ruotare attorno a queste due possibilità, che vengono esaminate una per volta e poi scoperte legate da un filo rosso: la condizione animale.

Gli aspetti che Alessandrini studia nei due libri, infatti, sono rispettivamente l’animalità in quanto pura biologia (essere un corpo, essere in crescita, essere morituro) e l’animalità in quanto ferinità (essere un non ancora o un al di fuori sociale). Volendo dunque giocare a rintracciare il “salto quantico” che l’autore fa nel passaggio da un libro all’altro[1], possiamo vedere come Alessandrini in queste opere mantenga centrale l’interesse per l’animale, ma lo scruti da prospettive diverse, tanto più significative quanto più confliggenti sull’asse natura-morale.

Del resto, l’ineliminato dei libri di Alessandrini, la pietra angolare che regge tanto l’impianto metaforico (animalesco) quanto la gnoseologia che quello sottende, è l’animale-uomo, rilevante in quanto biologico e insieme morale, istintivo e razionale, naturale e civile. È da qui, innanzitutto, che può sprigionarsi una pratica di poesia, per cui il verso assume da una parte il ruolo di racconto/resoconto (un verso spontaneo, orizzontale), dall’altra il compito di scandaglio/analogia (una verticalità ospitata, uno sguardo all’oltre).

In Somiglia più all’urlo di un animale, dunque, il rapporto con l’animale è calato all’interno dell’uomo-storia, nel senso del suo esserci in quanto temporalità, genesi e trasformazione biologica. Le sezioni che strutturano molto ordinatamente il libro sono infatti Estinzione (l’animale guasto), Terre di mezzo ed Estensione (l’animale giusto), dove la prima si incentra sul soggetto in quanto vivente (e vissuto, dunque scaduto, che opera una mesta «manutenzione del Creato») mentre l’ultima si schiude all’apertura delle aperture, e cioè alla nascita. La genesi si conclude perciò con la riproduzione, ovvero non si conclude, e il figlio è la prova vivente – appunto – della potenza dell’uomo in quanto animale («mentre tu lieviti in grembo / piano piano si proietta sul muro / l’ombra del gigante umano»).

Ma si vede già dalle parentesi delle sezioni come la trafila uomo-storia-biologia venga complicata dall’ingresso di una questione morale, “non naturale”: l’animale-uomo non è neutro, non è solo carne, e può connotarsi come guasto (il padre che si accorge della propria decadenza) o come giusto (il padre che scopre nel figlio la luce di una possibilità migliore). Somiglia più all’urlo di un animale, insomma, sovrappone la storia del corpo a quella dell’identità, dove l’urlo è la voce e insieme lo squarcio, il miracolo-orrore della nascita come materia e insieme come esserci.

Proprio la “questione morale” è il gancio che conduce a I congiurati del bosco, che però – pur mantenendo stilisticamente un verso morbido, posato, sciolto – è organizzato strutturalmente in maniera molto diversa. Qui non assistiamo tanto allo sviluppo di una genesi (o due: del padre e del figlio), bensì più evidentemente a una bipartizione, a una dialettica tra opposti. Che è quella tra dentro e fuori, dove il dentro rischia la menzogna, e il fuori equivale a un richiamo di possibile redenzione, di libertà. Ancora, infatti, il coefficiente angolare dell’immaginazione è l’animalità – stavolta presa, però, come natura selvatica, e cioè come verità (almeno sognata) dietro la maschera della civiltà.

Così la prima sezione, Acqua&sapone, insiste sull’artificialità del mondo umano, falso e inaffidabile proprio in quanto candido e polito. Anzi, le pratiche di tolettatura e perfezionamento del corpo che mettiamo quotidianamente in pratica sono evidenziate proprio in quanto insistiti esercizi di de-animalizzazione: «Ci siamo fatti bianchi / così vitrei, così trasparenti / ci siamo fatti pelle inumana / a poco a poco sottile / senza inestetismi / e dermatiti, / immuni al tempo: / porcellana.» Per contro la sezione terza, Bestiario della seduzione, fa un mini-compendio di figure animali, libere nella pre-civiltà, di cui si lodano l’«innocenza», la «bellezza», l’«orgoglio». Ma l’uomo rimane uomo anche mentre contempla l’animale, e lo contempla proprio in quanto inavvicinabile alieno. Exit strategy (sezione quarta), allora, pone un sigillo di disperazione al sogno animale: appaiono tentativi di rottura, anche violenta, della barriera umana, episodi di pazzo e vano auto-superamento («Tre fiori, una magnolia o un’orchidea, / quelli che dicevano velenosi: / ne aspiro tutto il succo»).

La frizione da cui partono gli ultimi due libri di Alessandrini, insomma, riguarda la coesistenza problematica tra l’animalità come conditio sine qua non dell’umanità e l’animalità come contro-umanità. Nel passaggio da Somiglia più all’urlo di un animale a I congiurati del bosco Alessandrini sposta lo sguardo dal primo al secondo tema, mantenendo però intatto non solo il focus sull’animalità, bensì, e soprattutto, l’ambivalenza su cui l’uomo si fonda. Da questo spostamento derivano le strutture quasi antitetiche dei due libri: un divenire che riproduce se stesso nel primo; un fascio di antinomie nel secondo.


[1] Finora ho dedicato la sezione Krino del blog a questo tipo di esperimenti: valutare continuità e fratture tra due libri contigui di un medesimo autore. Prima di Alessandrini, ho scritto sugli ultimi lavori di Carlo Tosetti e di Pasquale Pietro Del Giudice.