Il ruolo, i sommersi e i salvati

Ancora non mi sembra vero che quest’anno non invierò MAD in nessuna scuola, una pratica che era diventata appuntamento fisso di fine estate: saltavo di netto dalla metà di agosto a quella di settembre, 15-20 giorni che praticamente sparivano in un gesto meccanico reiterato dalla mattina alla sera.

Il punto comunque è che essere diventato di ruolo non sposta di una virgola l’opinione critica che ho verso il sistema scolastico, e in particolare verso le umiliazioni cui è sottoposto chi ci lavora (cerca di). Anzi l’essere da questa parte mi permette anche di sedare meglio il rischio di vittimismo e di mettere più oggettivamente a fuoco la miseria in cui è ridotta, da ogni lato, la macchina italiana chiamata istruzione. L’errore più grave, anzi, l’azione più ripugnante è quella di “salvarsi”, passare dall’altro lato e diventare difensori di categoria: viva gli insegnanti, viva la scuola, viva il lavoro. No. La civiltà in cui viviamo se ne fotte della strutturazione del pensiero e della coscienza che gli uomini devono acquisire per affrancarsi dalla schiavitù legittimata in cui sono costretti. Se diventiamo tifosi del nostro ombrello allora perdiamo, diventiamo protettori di un privilegio, classe scomposta in interessi particolari.

Allo stesso modo anche il senso di colpa per l’aver acquisito qualcosa che ai tuoi compagni non è spettato è un rischio. Questo è esattamente il ricatto che ci tiene per fame: la frustrazione di non arrivare contro la sindrome dell’impostore di essere arrivati. Quando dico che il precariato non è una condizione professionale, ma lo status antropologico della mia generazione non intendo altro che questo: presi alla gola da una gara tra sommersi e salvati. Lavoriamo dentro la scuola per fare che le persone, studenti e lavoratori, si riprendano se stesse. Anche contro la scuola, se necessario.