Sul Manifesto di oggi leggo una curiosa dichiarazione di Calenda. Questa: «Il merito è l’unico antidoto a una società classista o a una società appiattita sull’ignoranza.» L’azionista poi prosegue definendo «ideologica» la posizione di Landini, reo di aver criticato l’istituzione del Ministero dell’Istruzione e del merito.
Il ragionamento che traspare dalla dichiarazione di Calenda è chiaro: il merito va contro il classismo perché dà il premio a chi se lo guadagna impegnandosi e non a chi lo eredita. Di conseguenza, chi va contro questo principio è ideologico nel senso che non vuole accettare la oggettività disinteressata e leale della distribuzione per merito e si trincera dietro un pregiudizio dato dall’appartenenza a una certa fazione.
Ora, questa è una mistificazione, un gioco delle tre carte. E lo dimostriamo con un piccolo esercizio, appunto, di demistificazione:
1) Calenda nasconde la carta vincente, ovvero la verità, ovvero il fatto che ciò che davvero conta – e soprattutto a scuola, dove si condivide ogni dimensione dell’individuo, da quella economica a quella cognitiva a quella relazionale – è il punto di partenza. E che qualsiasi discorso sul merito è un discorso viziato in partenza se non si tiene conto della disparità (di classe, emotiva, geografica eccetera) congenita a un gruppo sociale. Ergo, il merito è un concetto che può funzionare solo “per sé”, nel senso che io se mi impegno posso diventare meritevole per me, per mio apprezzamento di me e vantaggio; non può invece funzionare a livello collettivo, perché gli standard per stabilire il merito saranno sempre arbitrari (dal momento che è varia la condizione di partenza dei competitori) e dunque facilmente raggiungibili per qualcuno ma difficilmente per altri. Chiunque abbia mai redatto un PDP in vita sua (quindi la quasi totalità degli insegnanti esistenti) questo lo sa.
2) A questo punto Calenda mostra la carta perdente, cioè falsa, spacciandola per vera, e accusa di classismo chi non appoggia l’idea di merito. Come si capisce dal punto 1, però, la verità è esattamente il contrario: classista è proprio il concetto di merito legato all’istruzione, perché impone uno standard che potrà essere raggiunto solo da alcuni e dunque non combatte ed anzi colpevolizza la disparità.
3) Infine, Calenda mostra l’altra carta perdente, un altro ribaltamento: accusa il discorso anti-merito di essere un discorso ideologico (che, per logica dei contrari, implica che quello pro-merito sia a-ideologico). Al di là del tipico rifiuto dell’ideologia della post-politica (su questo ho fatto già un post, lo linko nei commenti), Calenda maschera così proprio la sua, di ideologia – che è un’ideologia della competizione incapace di guardare seriamente in volto la questione della disparità e, al contempo, tesa a fare gli interessi dei meritevoli, che – ecco l’ideologia – sono una precisa classe, una precisa struttura cognitiva, un preciso genere eccetera.
Buon vecchio Calenda che giochi alle tre carte fuori via Sannio, sta volta non ce l’hai fatta. Ma ti siamo grati, comunque, perché, demistificandoti, abbiamo ancora più chiaro un nostro obiettivo: buttare via a calci dalla scuola (e quindi dalla cultura tutta) qualsiasi logica della competizione e del risultato. Studiare vuol dire dare una struttura al proprio pensiero, diventare capaci di gestire il sé e la nostra relazione con gli altri esseri e con gli oggetti, acquisire coscienza, andare incontro a ciò che è radicalmente altro. E il produttivismo, quindi, tiettelo pe’ te e il partito degli Avengers
