Stupendo mediometraggio che viene dalla Svezia ma rielabora cultura principalmente americana e giapponese (e tedesca). Come funziona: in stile “vaporwave” (schermo fluttuante, colori violacei da neon di Vice City, sonoro da cabinato arcade, movenze dei personaggi ritoccate al punto da sembrare videogame), si gioca sulla storia di questo novello Bruce Lee (ma l’ambientazione è a Miami 1985) che combatte contro il male, di varie forme, ma soprattutto contro cabinati-robot e nazisti eccentrici (con tanto di viaggio nel tempo per affrontare Hitler). La vicenda è chiaramente un pretesto per generare un frullatore della cultura degli anni ’80: hard rock e synth pop, i film à la Conan il barbaro e à la Terminator, il Giappone dei videogiochi e delle arti marziali, gli sparatutto, le supercar, Star Wars, i supereroi… Il frullatore è però non solo un ironico omaggio verso la cultura trash anni ’80 (il film è davvero schizzato: violenza evidentemente artificiale e voli pindarici sia fisici che narrativi senza gancio alcuno), ma soprattutto consapevolezza (postmoderna) della storia che si rimastica, dell’appiattimento sul presente e dell’ironia inglobante l’universo (comprese le atrocità del nazismo).
Categoria: Diario del film
Diario del film. Il mostro della laguna nera (1954) – Jack Arnold
È sempre affascinante osservare retroattivamente le percezioni dell’orrore e della fantascienza o scienza nel passato. Il mostro della laguna nera, come ogni monster movie, mette l’uomo certamente di fronte al diverso, all’orrido e/o all’indefinito, per farne emergere la paura verso queste forze e le possibilità di reazione. Qui, tuttavia, questo è declinato secondo un preciso senso scientifico: il mostro rappresenta un certo stadio della storia dell’evoluzione, a metà tra l’uomo e l’anfibio, che potrebbe essere un errore della natura oppure una forma superiore di uomo, adatta a vivere in condizioni difficili. La caccia alla creatura – non feroce come Lo squalo o La cosa, più a metà tra selvaggio e umano come King Kong, – è perciò la caccia all’inconoscibile senso dell’evoluzione delle specie e anche alla desiderata conoscenza della soluzione, corporea e adattativa, dei problemi umani. Un film iconico per la figura del mostro, diventata super popolare (ripresa nel recente La forma dell’acqua) e interessante per l’estetica pop, quasi da b-movie, che apre però piste filosofiche profonde (al pari di altri film con questa impostazione, come in genere i mostri Universal, oppure Godzilla o Freaks).
Diario del film. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – Elio Petri
Per me, uno dei film più belli di sempre.
Un incredibile Volonté interpreta un pezzo grosso della polizia che, spinto da una situazione di gelosia, o meglio, di presa in giro, da parte dell’amante prostituta, arriva a ucciderla. Vuole però, con questo omicidio, provare la propria insospettabilità: lascia tracce di sé in tutto l’appartamento, ma nonostante questo nessuno arriva a denunciarlo, per paura o per incredulità. E il suo lavoro è grossomodo quello di una ermeneutica surreale: ricostruire le tracce, interpretandole da poliziotto, che lui stesso ha lasciato da criminale, sfaldando e costruendo allo stesso tempo: l’azione anzi è proprio data sul crinale del gesto, dove ogni atto compiuto è insieme di segno positivo (per l’indagine) e negativo (per il depistaggio) e si annulla così nell’assurdità stessa del potere, nella labilità e nell’auto-annullamento della sovrapposizione del giusto al legale, dell’origine dei due legata l’una a quella dell’altro.
Il gioco è tutto fondato sulla capacità insieme logorante e promuovente del potere: il protagonista è un dissociato a causa del potere ottenuto grazie al successo in polizia (lui stesso arriva a dire di non sapere se confessare il crimine o nasconderlo, e le sue azioni si muovono ora in uno ora nell’altro senso); ma allo stesso tempo può permettersi il lusso di questo sottile delirante gioco grazie all’autorità acquisita (sia professionale che caratteriale, dato il suo carisma) che lo rende necessariamente al di sopra di ogni sospetto. Il giudizio kafkianamente insindacabile della legge (e una citazione di Kafka è infatti l’epigrafe del film) rimane oscuro e indiagnosticabile, impone una teoria inamovibile del giusto anche di fronte alla menzogna e alla liquidità della psicologia umana. Questo potere è tanto radicato che il percorso del protagonista si chiude con un interrogatorio per assurdo dove gli altri capi della polizia spingono il protagonista interrogato non a confessare il proprio delitto (come lui nell’ultima fase vuole) ma a confessare la propria innocenza.
Diario del film. Il sacrificio del cervo sacro (2017) – Yorgos Lanthimos
A un medico colpevole (?) di aver fatto morire un suo paziente durante un’operazione viene profetizzato, dopo una serie di eventi premonitori, che dovrà compensare la morte con l’uccisione di un suo familiare, altrimenti sua moglie, suo figlio e sua figlia seguiranno una serie di decadimenti fisici (perdita dell’uso degli arti inferiori, rifiuto del cibo, sangue dagli occhi) fino alla morte. Con una regia che mi ricorda molto il Kubrick di Shining (riprese dall’alto in lunghi corridoi, effetto steadycam, scenografie geometriche) e un uso della colonna sonora geniale (pochi suoni che entrano in frizione tra loro, anche nei momenti rilassati, e parole a volte coperte dalla musica), Lanthimos prosegue il suo percorso di riattualizzazione nella famiglia moderna di schemi appartenenti al mito antico, di forze in cui si intrecciano in senso distruttivo amore e odio. Qui il protagonista deve decidere se uccidere uno dei suoi familiari o lasciarli morire tutti: opta per la prima, ma attraverso un gioco casuale che è a tutti gli effetti un rito sacrificale. Il fatto che lui sia un medico lo rende hitchcockianamente consapevollizzato fin da subito: sa come reagisce un corpo alle malattie e segue il decadimento della sua famiglia attraverso tutti i passaggi clinici. Un film potente come tutti quelli di Lanthimos, anche se più posato e sottile rispetto a The Lobster: qui il macabro di Lanthimos è nella scelta assurda del protagonista, perciò il peso della violenza è ridotto in favore del peso della decisione, di un peso psicologico.
Diario del film. Love (2015) – Gaspar Noé
Incentrato sull’amore viscerale tra Murphy ed Electra, il film è un’analisi e insieme un’ode dell’amore indagato nella sua tridimensionalità e pienezza. La storia è raccontata sostanzialmente a ritroso attraverso un uso ordinato (all’inverso) del flashback, partendo dall’evento conclusivo come scatenante (il probabile suicidio di Electra), fino ad arrivare al momento iniziale della prima notte d’amore (e la chiusa visiva è su un piramidale, fotograficamente ordinato, abbraccio tra i due amanti: la fotografia è infatti molto interessante, il gioco delle luci molto calibrato sul giallo e sul senape, le inquadrature, forte la centralità della stanza da letto, quasi sempre dall’alto). E l’amore, che, come dice Murphy, è interessante quando è sesso più sentimento, è la spinta propulsiva di ogni azione (l’attrazione carnale, la sofferenza sentimentale, la riproduzione): non, però, nel senso ariostesco di magia che mette in disordine, quanto di – anche cruda, comunque dirompente – animalità allo stato vivo, non filosofizzata, dell’aggrovigliarsi quasi patologico dei corpi. L’incontro col trans, le orge (Noé non vela: è tutto esplicito, e in questo è la bellezza del film), sono la testimonianza di una sessualità totale, che permea tutte le definizioni dell’uomo in quanto animale e in quanto coscienza.