Se guardiamo ancora alla musica (“pop”) come più diretto dispositivo di costruzione di una coscienza collettiva antagonista, mi sembra che la trap sia ad ora l’unico ambito in Italia in cui è possibile tracciare una spinta punk, anarcoide o comunque riottosa di risposta al nostro tempo; quantomeno quello più vivace in questo senso. Non parlo qui di risultati estetici, visto che – come in tutti i generi – possiamo trovare cose ottime o buone (a me piacciono molto tha Supreme e Speranza, ad esempio) ma anche cose pessime (tantissime, ahimè).
Gli altri ambiti infatti – e anche qui non parlo di risultati estetici validi in senso stretto, che possono ritrovarsi dappertutto – in linea di massima sono:
– o semplicemente commerciali (cioè integrati al mercato, dunque innocui)
– o meramente revivalistici (alla Greta Van Fleet)
– o di nicchia ristretta (e quindi incapaci di sollevare un’onda importante come fecero a loro tempo punk, grunge, ecc.)
– o nevrotici (come l’indie, ormai palesemente una forma di aspirazione al successo che non vuole ammettersi tale e deve quindi giustificarsi extramusicalmente abbracciando l’etica progressista)
Ma perché allora la trap ci appare inaccettabile, di solito, da un punto di vista morale? Perché non riusciamo – soprattutto i più grandi – ad accettarne il credo droga, crimine e soldi?
Tralasciando l’antica tradizione di questo credo (vedi già Beatles e Velvet Underground, o tutto il mondo psichedelico), penso che un punto centrale sia proprio nell’anagrafe. A produrre e ascoltare trap sono ragazzi nati in stragrande maggioranza dopo il crollo dell’URSS, e tra questi una grande fetta anche dopo Genova 2001 o l’attacco alle Torri Gemelle.
Il problema è infatti l’impossibilità culturale di immaginare un’alternativa politica, su cui si fondava invece il punk, pure sfrangiato in molte e varie forme. Come dire: rimane il desiderio di rottura, di rivolta, ma non sono sottomano gli strumenti per incanalarlo in un progetto politico, anche solo ideale.
In una dialettica che non è più quella della guerra fredda ma, al contrario, è tutta interna al sistema americano, l’unica alternativa concreta allo stato borghese appare la criminalità, cui la trap si rivolge in una forma nichilistica, autodistruttiva, in un barocco kitsch e allucinato. Effetto collaterale, cadere nel gioco dell’onnicommercializzazione effettuato dal capitalismo.
Il disco di Blanco – che musicalmente per alcuni aspetti mi piace, per altri meno – mi ha confermato questo, cioè che la trap ha tutte le carte in regola per funzionare come nuovo punk, occasione di coscienza collettiva antagonista, tranne una: la possibilità storica e culturale di immaginare l’alternativa.
Una rivoluzione tautologica, dunque, che nei momenti in cui tocca l’intimismo (e lo fa regolarmente, non per caso) svela più chiaramente la sua parabola implosiva, e affoga.
Tag: Antagonismo
Prefazione a Antagonist poems di Luc Fierens
È uscito ieri Antagonist poems, nuovo libro di Luc Fierens (Luna Bisonte Prods), che ospita anche una mia breve prefazione a proposito di Agonismo vs antagonismo (che in forma leggerissimamente diversa si può trovare qui).
Altri articoli di critica e teoria letteraria, prefazioni, ecc. compaiono qui.
Agonismo vs antagonismo
Tutte le pratiche della nostra società sono agonistiche. Nella struttura, i meccanismi della concorrenza e della dialettica produzione-consumo esigono una sfida al rialzo. Nella sovrastruttura, il riversarsi quasi integrale della cultura nella sfera del social comporta che ogni azione sia misurabile in termini di apprezzamento/disprezzo – al pari della onnipresenza di una giuria (apparentemente) esperta in ogni campo.
Con questo sistema di critica “al grado zero” (mi piace/non mi piace – ma fb ad esempio è ancora più drastico: mi piace/silenzio), va da sé che tutte le pratiche – certamente anche la letteratura – sono direzionate e influenzate da questa competizione costante e asfissiante.
Ma l’agonismo è del tutto conservatore: è la tecnica di produzione del plusvalore simbolico, e l’agonista spinge per sconfiggere l’avversario in termini meramente quantitativi (più mi piace), senza mai mettere in discussione il sistema per cui corre.
All’opposto dell’agonismo c’è l’antagonismo, che in quanto tale è un valore. Se l’agonismo è la lotta prevista, e dunque presuppone un dato campo (società-social) e uno scarto tra vincitore e sconfitto (dato dal plusvalore simbolico), l’antagonismo è una lotta “contro” – contro un sistema. È lo smascheramento del campo (la società-social sfidata faccia a faccia nel cuore della sua astrazione e inumanità) e il rifiuto della misurazione della performance, il rifiuto del vincitore e del vinto. Proprio in quanto intollerato e imprevisto, l’antagonismo è la posizione più autocentrata, autentica, difficile da raggiungere: sabotare l’agone, disertare tutto.