L’ecologismo di destra

Nel discorso di insediamento Giorgia Meloni ha toccato anche l’argomento ambiente. Precisamente annunciando il desiderio di «proteggere il nostro patrimonio naturale» e di «difendere la natura con l’uomo dentro». Già in passato si era espressa in questi termini e se cerchiamo sul sito di Fratelli d’Italia troviamo ad esempio questa traccia: «Il nostro è un atteggiamento pragmatico e realistico che tiene insieme l’amore per la Natura, la difesa dei nostri paesaggi e la sostenibilità degli ecosistemi con le attività dell’uomo.»

Ecco, io ritengo questo approccio all’ambiente del tutto inefficace, perché viziato da paradigmi deleteri e inservibili per comprendere e affrontare la questione ambientale oggi. In particolare per quanto riguarda tre aspetti:
1) Meloni parla di «patrimonio naturale» e cioè definisce la salvaguardia dell’ambiente in termini di difesa – ça va sans dire – di un capitale; dunque si approccia al naturale in termini quantitativi e impone una gerarchia in cui l’uomo occupa il gradino superiore rispetto alla natura (tenuto a proteggerla ma anche legittimato a sfruttarla)
2) parla di «amore per la Natura» e «difesa del paesaggio» e cioè fa entrare nel discorso una concezione estetizzante e romantica del paesaggio, che convalida tutta una serie di schemi culturali del tutto opinabili (paesaggio = vegetazione, paesaggio = bel vedere, natura = bene ecc.)
3) più generalmente e soprattutto tende a non usare la parola ambiente (se non per attaccare «l’ambientalismo ideologico» della sinistra) bensì la parola «natura» o addirittura «Natura». Conseguenza è che l’ambiente viene a) considerato come sfera dell’incontaminato in opposizione a alla contaminazione urbana; b) divinizzato

Sono elementi che mostrano come, in barba all’«atteggiamento pragmatico e realistico», il progetto ambientalista (?) di destra obbedisca a precisi costrutti culturali (e vecchi di almeno 120 anni). Di più: per salvaguardare la classe industriale (che si serve della “natura”) e insieme disinnescare l’attivismo ecologico (che riporta la violenza del naturale – cioè la sua coscienza – nella bolla umana), la destra deve considerare “la natura” come qualcosa di sottomesso all’uomo («difendere la natura con l’uomo dentro») e allo stesso tempo come qualcosa di sacro e intoccabile. Cioè contraddicendosi e riaffermando in questa contraddizione proprio la relatività culturale (e il rischio politico) del paradigma dualistico uomo/natura

L’esatto opposto, insomma, di ciò che invoca Timothy Morton in “Iperoggetti”: la necessità di un «ecologismo senza natura» che rilevi l’inscindibilità tra uomo e ambiente e dunque l’urgenza di rispondere attivamente alla questione climatica – e non conservando (cioè capitalizzando) una trita estetica del paesaggio

Elogio dell’analfabetismo

Tra le tante cose, la nostra è anche l’epoca dei tutorial. Ogni forma di sapere e tecnica può essere (apparentemente) appresa da un video YouTube. Questo in linea di massima potrebbe soppiantare nel tempo un tipo di trasmissione (specie delle tecniche della quotidianità, tipo mettere un chiodo o fare la lavatrice) che è di fatto umana, cioè con una persona che lo spiega a un’altra persona. Certo, quel tipo di trasmissione è oggi ancora largamente intriso di virilismo e machismo e forme nevrotiche di autoaffermazione che lo rendono di solito detestabile. Padri vs figli, spesso, più che padri + figli.
Per contro, la trasmissione-tutorial potrebbe sfaldare del tutto, sul piano antropologico, l’idea di trasmissione come consolidamento di una comunità, significato, gruppo. Persone.

Mentre ragionavo su questa impasse, ho pensato che allora, nel frattempo, può essere davvero importante conservarsi un’oasi di analfabetismo, uno spazio in cui mettersi sinceramente alla prova col proprio limite contro le presunte onniscienze. Non in senso efficientista, però – altra faccia del problema – bensì proprio come primitività, inizio.
Io ho trovato questi spazi nell’agricoltura e nel disegno, per esempio, pratiche di cui non sapevo e non so nulla, e che fin dall’inizio ho voluto mantenere così, come una dimensione dove sei perso, senza alcun equipaggiamento. È chiaro poi che l’azione si direziona in parte secondo certi modelli inevitabilmente acquisiti (assunti per anni tramite una TV coloniale, magari); ma, se si prende coscienza di questo, agire nell’analfabetismo di una tecnica diventa reale pratica di riacquisizione di quel limite che il tutorial ti illude di superare. Imparare senza nessun a priori come effettiva origine. Profondo corpo a corpo – fisicamente, proprio – con quello che non sai.

«Perciò il saggio pospone se stesso, ma è sempre davanti; esclude se stesso, ma si tiene lontano dai pericoli. Non è forse perché è senza fini personali che può realizzare i propri fini?»
(Tao Tê Ching, VII)

Teoria e pratica e stereotipi

L’opposizione insanabile tra attività pratica e attività intellettuale (del tipo, o sai sbattere la calce o sai fare il filosofo) è naturalmente una falsità. Eppure questo stereotipo è ancora profondamente radicato nell’opinione comune: fin da quando abbiamo iniziato a interessarci di “cose astratte” (sic!), abbiamo dovuto (chi più chi meno in base al contesto, ma credo tutti) giustificare la nostra intelligenza, venire a patti con la visione altrui secondo cui se sappiamo “parlare bene” – o scrivere, o formulare un ragionamento, ecc. – automaticamente non siamo in grado di spaccare la legna o distinguere il cilindro dal radiatore.

Considerando il dualismo corpo/anima (cristiano, cartesiano…) e quello cultura alta/bassa (borghese, clericale…) che stanno alle spalle di questa idea, nonché gli stereotipi sui ruoli di genere, credo si possa individuare al nocciolo un nodo che in linea di massima è fatto così:
– chi sostiene che l’attività pratica non possa essere appannaggio degli “intelligenti” e schifa la “cultura”, vuole legittimare il proprio non comprendere i linguaggi “alti”, prova un’inconsapevole invidia di classe perché percepisce inconsciamente che il mondo di cui fa parte è costruito ai danni della classe operaia (ma non rivendica, di solito, una mobilitazione collettiva, bensì un’affermazione individuale e virile)
– chi sostiene che l’attività intellettuale non possa essere appannaggio dei “pratici” e schifa i cantieri, vuole legittimare il proprio privilegio di classe, prova un inconsapevole godimento/senso di colpa verso la propria condizione “fortunata”, che sublima nell’attività intellettuale (ma non rivendica, di solito, una mobilitazione collettiva, bensì un’etica astratta e autogiustificante)
In ogni caso l’asse è spostato dalla critica verso un’ideologia che separa teoria e prassi (mortificando entrambe) a uno scontro tra sconfitti per l’affermazione nervosa della propria miseria.

(Io, per sicurezza, scrivo libri e zappo la terra. E sono povero in entrambi i casi.)