Destra irrazionale e sconfitta sociale

Una vittoria della destra significa sempre una vittoria dell’irrazionale, della difesa nevrotica di presunti confini (siano geografici o patrimoniali o antropologici), quindi di una popolazione in qualche modo sfiancata che si rassicura nelle gerarchie di questi schematismi.

È perciò una sconfitta sociale, più che elettorale. Occorre infatti vedere le elezioni come una rappresentazione e non come una finale di calcio; e tale rappresentazione disegna ancora una massa enorme di sfiduciati nella politica in quanto tale e una più ristretta che risolve la sua insofferenza nel securitarismo machista della destra.

Questa occasione, quindi, valga almeno come sprone per un ricompattamento della sinistra, che deve lavorare sullo smarrimento degli astenuti e sull’irrazionalismo degli infatuati. E cioè deve, oggi più che mai, insistere sui suoi punti forza, sui suoi specifici metodi: la lotta e la ragione critica.

Il consumismo come datore di lavoro

Adesso immagino il consumismo come un datore di lavoro, un datore di lavoro invisibile simile a quello di Glovo o Deliveroo: ci assume, ci dà delle coordinate tramite un algoritmo e assegna come mansione quella di acquistare. Questo lavoro ci impegna a ogni ora. Non solo: ci piace, perché ci permette di ordinare degli oggetti che arrivano ben impacchettati in cartone robusto. Psicologicamente, risolta la questione lavoro, abbiamo risolto la paura di non avere posto del mondo e quella di sentire l’urto della vita se rimaniamo inoperosi. Da questa prospettiva, che presa può avere su di noi essere chiamati alle urne, mettiamo, un 25 settembre? Che presa può avere l’idea di modificare qualcosa se sono assunto, impegnato, sazio? La generale sfiducia verso le elezioni è tale perché la partita – la partita politica, proprio – si svolge altrove.

Post-ideologia e conservazione della specie

Che sia chiaro una volta per tutte, almeno, grazie alla parabola dei 5s e all’indecisionismo letta-renzi-calendiano, che la post-ideologia è un’illusione. Anzi (mi sembra superfluo dirlo ma lo dico) è a sua volta un’ideologia – che disinnesca ogni possibile tentativo di effettiva trasformazione del reale.

Credo invece che tornare a ragionare sul meccanismo dell’ideologia – evitando, certo, le cristallizzazioni – sia importante. Sanguineti ad esempio parla di ideologia come «organizzazione […] che gli individui – e i gruppi sociali, e le classi – cercano di dare alla realtà».
O, se proprio il discorso sulle classi non vi piace, la si legga almeno in termini antropologici, con Geertz: «è attraverso la costruzione di ideologie, immagini schematiche di ordine sociale, che l’uomo fa di se stesso, per il meglio e per il peggio, un animale politico».
Insomma, se incrociamo le citazioni, risulta che l’ideologia è un inevitabile aggregante simbolico, e che può esistere un’ideologia “a monte”, che raggruppa interessi particolaristici affini, e un’ideologia “a valle”, cioè convertita in coscienza di classe.

Il Movimento 5 Stelle, ad esempio, ha sempre rifiutato la categorizzazione, ha sempre parlato di legalità senza calare la legge nelle contraddizioni economiche, facendo della giustizia una diligente (ma mera) aderenza all’esistente. In parallelo, la sedicente sinistra ha fatto subliminalmente suo il mantra post-ideologico, risolvendosi in un atteggiamento nevrotico che in superficie si fregia dell’eredità progressista ma strutturalmente partecipa al mantenimento delle cose.

Il risultato? I post-ideologici (latenti o patenti) sposano l’ideologia dello status quo (che è, neanche a dirlo, quella capitalistica) e l’unica fazione rimasta a non vergognarsi della propria ideologia è la destra. Che la utilizza sia in termini di protezione di classe (quella dei ricchi) sia in termini di definizione culturale e antropologica (cosiddetta famiglia naturale, xenofobia eccetera).

Cosa spero quindi per le prossime elezioni? Quello che spero per tutte le elezioni da un po’ di tempo: che i voti si disperdano tra partiti piccolissimi. O, al limite, la diserzione. Bisogna cominciare a interrogarsi sul Parlamento in sé come strumento di potere di una classe, vista la popolazione che lo abita. E poi sull’amore per la poltrona, che è qualcosa di più articolato dell’avidità individuale. È conservazione della specie.