In cima all’Isola Comacina, tra resti romani e medievali, si trova questo oggetto. Visto così, è una meraviglia, puro dada: un quadrato vuoto, bianco, rotante, in cima a una collina. Fuori posto, divino e alieno.
Ma la frequentazione dell’oggetto, la lettura della didascalia e dell’hashtag mettono, in un secondo momento, di fronte alla sua effettiva “funzione”: inquadrare qualcosa – dalla vetta dell’isola i paesaggi sono belli e molteplici – dunque fotografarlo e smerciarlo su Instagram.
In questa dicotomia sta l’essenza del turismo, che ha due matrici fondamentali:
1) l’antidadismo, cioè impedire ogni forma di disfunzione e di alienità, imporre il funzionalismo come traino del consumismo
2) la bidimensionalità, cioè mantenere inquadrabile e misurabile la realtà, e intatto e irrinunciabile il fronteggiarsi di spettatore e spettacolo. Una sorta di “regola dei 180°” rubata al cinema e applicata alla realtà tutta
Questo oggetto, insomma, così luminoso all’inizio – pensate fare una salita e trovare in cima, senza ragione, non un santuario ma un inquadratore del cielo – mi ha poi dimostrato non solo che Simmel con Filosofia del paesaggio, decenni e decenni fa, aveva intuito alla perfezione i meccanismi di significazione dello spazio (è l’occhio che fonda il paesaggio, tramite una cornice anche solo ideale), ma soprattutto che, sì, turismo è l’al di qua, l’esatto opposto di esperienza.
Tag: Eterotopie e geoimmaginazioni
Sondrio, Tirano, camminare sul fondo
La Valtellina è una ferita tracciata dall’Adda, scava tra Alpi e Prealpi. Grazie al fiume il clima si scioglie ed è possibile il vino. Mi ha detto un amico che messi in fila i vigneti che segnano i fianchi della valle, e i prati, coprono una distanza da Roma a Berlino. Non so se è vero ma visti dal treno i terrazzamenti fanno impressione, sono idee filiformi di viandanza, mosaici di coltivazioni centimetrate difficilissime da guardare (saturano, impattano, disturbano che è una meraviglia). Dalle cime che li sovrastano alcune chiese a picco sulla valle, minuscoli paesi.
Così, in basso, al livello del fiume, si coagulano alcune cittadine. Ho visto Sondrio e Tirano. A Sondrio per una Piazza (Garibaldi) e scale corte si arriva al castello: la vista lì riguarda tetti antichi (la torre civica grandiosa) maculati da palazzi nuovi fatiscenti. Un anacronismo, schiena alle Alpi. A Tirano – sono pochi minuti dalla Svizzera, affacciandosi ad alcuni valichi se ne respira già l’odore – una strada larga collega l’Adda al Santuario: c’è un organo ligneo che non si può descrivere, una piazza, un cielo plumbeo perfetto (oggi). Sono città rasoterra, si vivono dal basso, si calpestano. Le vette bianche e i vigneti sono cornici nel senso che da qui in qualche modo non ci si allontana: o calpesti, stai dentro, o si evapora. Varcato il confine della valle, rivisto il lago dopo Colico, è tutto già inghiottito da una dimensione che non torna.
Le anime di Berlino – Parte I
Berlino è un gigantesco schema industriale. Camminarci dentro significa seguire una catabasi che parte dal sole, dalla classicità e sinuosità del paesaggio italiano e affonda in una dimensione completamente diversa, di geometria funzionale, della concezione dello spazio come esaurimento di una proiezione e come serialità di un ordine.
Berlino, per me, è l’Europa: se Londra ad esempio fa eco in gran parte al modello americano, Berlino per quanto metropoli conserva una dimensione inamericanizzabile – quella di una sfera oscura alimentata dalle ferite della storia, dagli smembramenti e accorpamenti continui, e concretizzata in questa architettura di cemento e potenza. Non è metropoli, è Metropolis, e conserva la profezia di un’alienazione, il proprio Nosferatu.
Così Kreuzberg attorno ai palazzi intreccia un graffito e una rivalsa di strada, l’aria della città si evolve nel transumanesimo elettronico dei Kraftwerk o nel punk anti-Ramones, e queste lamiere – la prima cosa che ho visto a Berlino, la più bella – non sono lamiere ma una canzone degli Einstürzende Neubauten.