Berlino è un gigantesco schema industriale. Camminarci dentro significa seguire una catabasi che parte dal sole, dalla classicità e sinuosità del paesaggio italiano e affonda in una dimensione completamente diversa, di geometria funzionale, della concezione dello spazio come esaurimento di una proiezione e come serialità di un ordine.
Berlino, per me, è l’Europa: se Londra ad esempio fa eco in gran parte al modello americano, Berlino per quanto metropoli conserva una dimensione inamericanizzabile – quella di una sfera oscura alimentata dalle ferite della storia, dagli smembramenti e accorpamenti continui, e concretizzata in questa architettura di cemento e potenza. Non è metropoli, è Metropolis, e conserva la profezia di un’alienazione, il proprio Nosferatu.
Così Kreuzberg attorno ai palazzi intreccia un graffito e una rivalsa di strada, l’aria della città si evolve nel transumanesimo elettronico dei Kraftwerk o nel punk anti-Ramones, e queste lamiere – la prima cosa che ho visto a Berlino, la più bella – non sono lamiere ma una canzone degli Einstürzende Neubauten.