Quando conosco una nuova classe, comincio sempre con una domanda: “perché state qua dentro?”
Cascasse il mondo, le prime tre risposte sono sempre queste:
– perché mi obbligano
– per il lavoro
– per cultura generale
Quando faccio notare, con un po’ di cinismo, che all’ingresso non ho visto genitori col fucile, che si può lavorare anche senza studiare e che “cultura generale” non significa assolutamente nulla, non sanno che rispondere. Vanno nel panico.
Noi dobbiamo lavorare su questo panico. Che la destra stia al governo è l’ultima foglia caduta, una questione di formalità sopra la sostanza più solida, che è quella di un agire senza visione di scopo: studiare per obbligo, lavorare per obbligo. Sono sfavoriti gli spazi sociali in cui si interrogano il senso e le condizioni.
Ma la classe può essere una cellula politica, di umano che guarda l’umano, se sblocca un percorso di accorgimento di sé. E può esserlo radicalmente proprio perché quella è l’età dell’apprendimento e della rivalsa. Con la sinistra istituzionalmente inesistente, agire politicamente oggi vuol dire fabbricare armi di frantumazione ideologica – spazzare via la cultura lavorista, la costrizione e il sapere-per-il-sapere borghese delle risposte sopra – e aprire spazi di discussione e immaginazione. Fuori dal centro, nelle zone di margine, nelle aule, nelle assemblee, faccia a faccia con le persone.
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Il ruolo, i sommersi e i salvati
Ancora non mi sembra vero che quest’anno non invierò MAD in nessuna scuola, una pratica che era diventata appuntamento fisso di fine estate: saltavo di netto dalla metà di agosto a quella di settembre, 15-20 giorni che praticamente sparivano in un gesto meccanico reiterato dalla mattina alla sera.
Il punto comunque è che essere diventato di ruolo non sposta di una virgola l’opinione critica che ho verso il sistema scolastico, e in particolare verso le umiliazioni cui è sottoposto chi ci lavora (cerca di). Anzi l’essere da questa parte mi permette anche di sedare meglio il rischio di vittimismo e di mettere più oggettivamente a fuoco la miseria in cui è ridotta, da ogni lato, la macchina italiana chiamata istruzione. L’errore più grave, anzi, l’azione più ripugnante è quella di “salvarsi”, passare dall’altro lato e diventare difensori di categoria: viva gli insegnanti, viva la scuola, viva il lavoro. No. La civiltà in cui viviamo se ne fotte della strutturazione del pensiero e della coscienza che gli uomini devono acquisire per affrancarsi dalla schiavitù legittimata in cui sono costretti. Se diventiamo tifosi del nostro ombrello allora perdiamo, diventiamo protettori di un privilegio, classe scomposta in interessi particolari.
Allo stesso modo anche il senso di colpa per l’aver acquisito qualcosa che ai tuoi compagni non è spettato è un rischio. Questo è esattamente il ricatto che ci tiene per fame: la frustrazione di non arrivare contro la sindrome dell’impostore di essere arrivati. Quando dico che il precariato non è una condizione professionale, ma lo status antropologico della mia generazione non intendo altro che questo: presi alla gola da una gara tra sommersi e salvati. Lavoriamo dentro la scuola per fare che le persone, studenti e lavoratori, si riprendano se stesse. Anche contro la scuola, se necessario.
Teoria e pratica e stereotipi
L’opposizione insanabile tra attività pratica e attività intellettuale (del tipo, o sai sbattere la calce o sai fare il filosofo) è naturalmente una falsità. Eppure questo stereotipo è ancora profondamente radicato nell’opinione comune: fin da quando abbiamo iniziato a interessarci di “cose astratte” (sic!), abbiamo dovuto (chi più chi meno in base al contesto, ma credo tutti) giustificare la nostra intelligenza, venire a patti con la visione altrui secondo cui se sappiamo “parlare bene” – o scrivere, o formulare un ragionamento, ecc. – automaticamente non siamo in grado di spaccare la legna o distinguere il cilindro dal radiatore.
Considerando il dualismo corpo/anima (cristiano, cartesiano…) e quello cultura alta/bassa (borghese, clericale…) che stanno alle spalle di questa idea, nonché gli stereotipi sui ruoli di genere, credo si possa individuare al nocciolo un nodo che in linea di massima è fatto così:
– chi sostiene che l’attività pratica non possa essere appannaggio degli “intelligenti” e schifa la “cultura”, vuole legittimare il proprio non comprendere i linguaggi “alti”, prova un’inconsapevole invidia di classe perché percepisce inconsciamente che il mondo di cui fa parte è costruito ai danni della classe operaia (ma non rivendica, di solito, una mobilitazione collettiva, bensì un’affermazione individuale e virile)
– chi sostiene che l’attività intellettuale non possa essere appannaggio dei “pratici” e schifa i cantieri, vuole legittimare il proprio privilegio di classe, prova un inconsapevole godimento/senso di colpa verso la propria condizione “fortunata”, che sublima nell’attività intellettuale (ma non rivendica, di solito, una mobilitazione collettiva, bensì un’etica astratta e autogiustificante)
In ogni caso l’asse è spostato dalla critica verso un’ideologia che separa teoria e prassi (mortificando entrambe) a uno scontro tra sconfitti per l’affermazione nervosa della propria miseria.
(Io, per sicurezza, scrivo libri e zappo la terra. E sono povero in entrambi i casi.)
L’insegnante che si umilia
Questo è quel periodo dell’anno in cui ogni “aspirante docente” (quante cose brutte in questa definizione) si umilia, sia per le GPS o per le MAD. E si umilia non “semplicemente” come persona che vende il proprio tempo in cambio di un potere d’acquisto (che è l’alienazione standard), ma di più e peggio come persona che regala al vuoto il proprio tempo in cambio di una possibile (?) opportunità.
Anche questo è un grande scarto che ci separa dalle generazioni precedenti, una grande forma di incomunicabilità. Gli anni ’80 hanno educato i nostri genitori a pensare che la felicità si compra, e quindi che il lavoro è accumulazione di felicità possibile; una forma di alienazione tutta interna all’esplosione della pubblicità, al dialogo fitto (ma concreto, almeno) tra tempo venduto e oggetto acquistato.
La nostra alienazione è molto più subdola, perché inserisce quel discorso (comunque presente) in un crollo costante di garanzie sociali. Questo è il precariato: che la felicità, sì, ancora si compra, ma che anche il lavoro si compra (esperienza, punteggio, titoli, tempo = soldi), e la tua vita deve essere la spesa gratis del corpo alla ricerca di un guadagno che forse ti apre un acquisto (alienante). Il desiderio dell’acquisto rimane invariato, ma la dialettica è monca, e il precario è il nulla sociale, turbina di produzione di occasioni irreali e basta.
Non auguro a nessuno l’esperienza dell’invio massivo delle Messe a disposizione: venti giorni dalla mattina alla sera a ripetere lo stesso identico gesto senza sapere se servirà a qualcosa. Non lo auguro a nessuno perché è una delle esperienze che più si avvicinano a ciò che la nostra realtà, dietro la patina, effettivamente è: alienazione informatica per acquistare l’aura impalpabile di un illusorio ruolo nel mondo.