Musica e (non) lotta. Breve panoramica sulla svolta individualista e disimpegnata degli ultimi anni

– Fast animals and slow kids
«divento più grande / e cambio le sorti del mondo» (2013)
«Adoro festeggiare i capodanni / adoro lavorare tutti i giorni» (2021)

– Zen Circus
«Il mio voto vale quanto / quello di quest’imbecille / e allora cosa me ne frega / delle vostre cinque stelle» (2014)
«Lasciati attraversare / lascia che il mondo giri su sé stesso senza far rumore» (2022)

– Caparezza
«Non siete Stato voi / che meritereste d’essere estripati come la malerba dalle vostre sedi» (2011)
«Devi fare ciò che ti fa stare bene» (2017)

– Vasco Brondi/LLDCE
«vedrai che scopriremo delle altre americhe io e te / che licenzieranno altra gente dal call center / che ci fregano sempre» (2010)
«Passerò ore in verticale sulla testa / o a meditare, a lasciarmi respirare» (2020)

– Lo Stato Sociale
«mi sono rotto il cazzo che bisogna essere lavoratori flessibili / come ergastolani in tournée ma molto più sorridenti» (2012)
«Una vita in vacanza / una vecchia che balla» (2018)

– Negrita
«La macchina che guidi guarda bene non è tua / la paghi tutti i giorni al fabbricante di liquame» (2008)
«Voglio stare bene / sopra questa barca che va e non va» (2018)

– Thegiornalisti
«Il cyberbullismo, i nei sulle mani / il gas e la luce che non paghi neanche domani / la dinamite dei popoli a est» (2015)
«E allora sogno a bestia una pioggia tropicale / dove siamo soli e tu inizi a ballare» (2019)

– Criminal Jokers/Motta
«Fucili e chitarre» (2012)
«E come il mare alla fine / fai quello che ti va» (2021)

– Pinguini Tattici Nucleari
«Italia Italia che sei meno scontata / di una condanna di Berlusconi» (2014)
«Ma questa sera ho solo voglia di ballare, / di perdere la testa e non pensare più» (2020)

FAQ sul caso Maneskin (ovvero – che è più interessante – su come l’opinione pubblica ricada sempre nelle stesse fuorvianti polarizzazioni)

– “Mi piacciono i Maneskin, ho qualche problema?”
No, ascolta quello che ti pare.

– “Non mi piacciono i Maneskin, ho qualche problema?”
No, ascolta quello che ti pare.

– “I Maneskin sono tecnicamente scarsi”
No, sono nella media. Le loro canzoni non brillano di virtuosismi, ma sono suonate come devono essere suonate. La capacità esecutiva, poi, è solo una delle componenti che concorrono alla produzione di buona musica. La storia ci ha presentato tutte le casistiche: musicisti ottimi tecnicamente e ottimi artisticamente (vedi: molto prog), pessimi tecnicamente e ottimi artisticamente (vedi: molto punk), ottimi tecnicamente e pessimi artisticamente (vedi: non pochi shredder), pessimi tecnicamente e pessimi artisticamente (sbizzarrisciti).

– “I Maneskin non sono vera musica, la vera musica sono gli AC/DC”
Mi pare tu stia mescolando denotazione e connotazione. Essere musicalmente riusciti o non riusciti non coincide con essere o non essere musicisti. Dunque i Maneskin sono musica – dal momento che producono arte attraverso i suoni – a prescindere se tu li ritenga buona musica o no. La tua critica per giunta è passatista e un tantino boomer.

– “I Maneskin sono innovativi?”
No, di fatto riaffermano un’estetica (di musica e di immagine) codificata già negli anni ’70 (e non sono neanche gli unici: vedi Greta Van Fleet). Quindi gli stessi Maneskin, forse, sono un tantino boomer.

– “I Maneskin sono musicalmente rilevanti?”
No, non molto, per la natura revivalistica della loro produzione e per i risultati estetici tutto sommato modesti. Questo, tuttavia, non implica che non possano essere rilevanti come fenomeno mediatico (vedi sotto), né che possano essere da te apprezzati per gusto personale.

– “I Maneskin sono rilevanti come fenomeno mediatico?”
Sì, considerando i numeri delle visualizzazioni e i grandi eventi a cui stanno partecipando. Se ci interessano le dinamiche della società (musicale e non), quindi, vale la pena seguirli e osservarli in quanto fenomeno mediatico, a prescindere dal giudizio estetico che ne diamo.

– “I Maneskin sono rilevanti come fenomeno sociale?”
Se per fenomeno sociale intendi qualcosa che non riguarda solo le interazioni sui social, ma che ha anche un impatto concreto nella vita di un gruppo di persone (in termini di abbigliamento, universo di ascolti, visione del mondo, eccetera), credo che si possa valutare se i Maneskin lo sono solo su un arco di tempo più ampio di pochi mesi. Possiamo dire, comunque, che mediatico e sociale non sono la stessa cosa, e che al momento i Maneskin non sembrano aver sollevato un movimento sociale o una sottocultura esteticamente riconoscibile. Probabilmente anche per il fatto che essi stessi sono un prodotto – estetico e sonoro – di recupero (degli anni ’70, come detto).

– “I Maneskin sono i Beatles italiani”
Biologicamente possiamo dire di no (escludiamo, per semplificazione, la possibilità di uno spin-off della teoria secondo cui Paul McCartney sarebbe morto negli anni ’60 e sostituito da un sosia).
Metaforicamente, questa frase di Manuel Agnelli è di certo un’iperbole.
Se in questa iperbole leggiamo semplicemente che i Maneskin sono un gruppo giovane, rock e di grande successo, allora sì, al momento possiamo chiamarli “Beatles italiani”, se questa formula ci sembra efficace per dire che sono famosi.
Se in questa iperbole, invece, leggiamo che i Maneskin stanno producendo un fenomeno storico-sociale equivalente a quello prodotto dai Beatles negli anni ’60, allora, no. I Beatles non erano una grande rock band giovanile, i Beatles hanno inventato il concetto di rock band (oltre a tutta un’altra serie di cose, inventate o perfezionate: ad esempio la copertina del disco come opera d’arte, lo studio di registrazione come strumento musicale, e così via, senza contare, naturalmente, i dischi).
Rimane che una comparazione effettiva tra Maneskin e Beatles risulta inattuabile per questioni storiche, sociali e anche stilistiche.

– “I Rolling Stones cercano visibilità chiedendo ai Maneskin di aprire il loro concerto?”
Da un punto di vista generale, chiaramente, no: i Rolling Stones non hanno “bisogno” di visibilità. Tuttavia, è bene tenere conto che il binomio “cantante di successo-pubblico oceanico generalista” è in caduta libera da decenni, e, almeno a partire dagli anni ’90 – ma con un picco negli ultimi tempi dovuto al diffondersi dei social network – il rapporto cantante-fan si è sempre più liquefatto e settorializzato. Vista l’ipertrofia della proposta e la fidelizzazione su cui si fondano i dispositivi di ascolto (gli algoritmi di Spotify, ad esempio), il pubblico generalista è sostituito da tante nicchie di gruppi di ascoltatori più o meno estese. Dunque i Rolling Stones, in senso assoluto, non hanno bisogno dei Maneskin, ma in senso relativo sì, intendendo con senso relativo la possibile apertura di una nicchia di mercato attualmente chiusa o quasi agli Stones. La quale coincide con quella dei giovani lontani – per famiglia, geografia, eccetera – al mondo del rock, e che conoscono i Maneskin non in quanto gruppo rock ma in quanto, innanzitutto, fenomeno mediatico proposto dai massmedia e dai social network. La generazione Tik Tok, insomma, visti anche i tempi di ricezione e rielaborazione rapidissimi che “annullano” la storia, conosce di certo più i Maneskin che i Rolling Stones, e questo non è un oltraggio a Jagger e soci, bensì la semplice realtà dei meccanismi algoritmici e delle nicchie culturali.

– “I Maneskin vanno supportati perché sono italiani”
Sei libero di pensarla così. Ma si tratta di tifo giustificato da un aspetto extramusicale. Dunque non si tratta né di valutazione critica né di musica. Inoltre potremmo fare un lungo elenco di artisti italiani, presenti e passati, non egualmente “supportati”.

– “I Maneskin sono sottovalutati/sopravvalutati?”
Questione che viene posta sempre, quando si tratta di musicisti di successo. E, come sempre, credo che l’affermazione sia fuorviante e/o incompleta: l’arte si affronta con strumenti ermeneutici, non con una misurazione della performance. Bisognerebbe quindi esplicitare sottovalutati/sopravvalutati in base a quale sistema di riferimento (commerciale, estetico, storico, sociale, eccetera), e anche in quel caso sarebbe complicato dare una risposta secca che non ricada nel puro parteggiare per fazione (pro vs contro).

– “Odio i Maneskin”
Purché questo non sfoci in un attacco terroristico, puoi farlo. Chiediti, tuttavia, se il tuo odio non derivi da una generale incapacità di accettare il successo altrui, oppure di accettare la nuova musica, oppure – soprattutto – di accettare quella nuova musica che assomiglia alla vecchia e su cui, dunque, puoi esercitare una comparazione che sfoga la tua nostalgia o il tuo inconsapevole conservatorismo. Potresti scoprire nuovi lati di te.

– “Impazzisco per i Maneskin”
Allora goditi la tua passione. Chiediti, tuttavia, se la tua passione sia realmente musicale e non – sì, c’è questo rischio, proprio in quanto legata a un fenomeno mediatico – prodotta da un algoritmo, oppure dal desiderio di appartenenza a un gruppo. Oppure, ancora, se non dipenda dalla sessualizzazione della loro immagine (cosa normale, comunque: gli idoli musicali sono sessualizzati fin da quando esiste la pop music). Potresti scoprire nuovi lati di te.

– “I Maneskin avvicineranno i ragazzi al rock?”
È possibile, ma molto probabilmente in un numero esiguo. Non ci sono infatti le condizioni storiche per far sì che il rock (parola-calderone ormai vuota di senso) torni a essere una forma di musica realmente popolare e realmente in grado di muovere grandi gruppi di giovani. Ritorniamo, così, al discorso del revival e del vintage. In più, chiediamoci se il rock sia un bene in quanto tale: ancora, il rischio di mescolare denotazione e connotazione.

– “I Maneskin hanno avuto successo quindi sono bravi”
Se hanno avuto successo, vuol dire che i Maneskin sono stati bravi a… avere successo. Loro e l’entourage che li circonda. Apprezzane dunque il successo, se lo ritieni giusto, ma non c’è nessuna correlazione tra questo e le loro capacità artistiche. Anche qui, la storia ci ha fornito tutte le possibilità: ottimi artisti di grande successo (vedi: Pink Floyd), pessimi artisti di grande successo (vedi: Gigi D’Alessio), ottimi artisti di scarso successo (vedi: Dadamah), pessimi artisti di scarso successo (vedi: Antonio Francesco Perozzi).

Sulla trap (italiana) e la rivoluzione tautologica

Se guardiamo ancora alla musica (“pop”) come più diretto dispositivo di costruzione di una coscienza collettiva antagonista, mi sembra che la trap sia ad ora l’unico ambito in Italia in cui è possibile tracciare una spinta punk, anarcoide o comunque riottosa di risposta al nostro tempo; quantomeno quello più vivace in questo senso. Non parlo qui di risultati estetici, visto che – come in tutti i generi – possiamo trovare cose ottime o buone (a me piacciono molto tha Supreme e Speranza, ad esempio) ma anche cose pessime (tantissime, ahimè).

Gli altri ambiti infatti – e anche qui non parlo di risultati estetici validi in senso stretto, che possono ritrovarsi dappertutto – in linea di massima sono:
– o semplicemente commerciali (cioè integrati al mercato, dunque innocui)
– o meramente revivalistici (alla Greta Van Fleet)
– o di nicchia ristretta (e quindi incapaci di sollevare un’onda importante come fecero a loro tempo punk, grunge, ecc.)
– o nevrotici (come l’indie, ormai palesemente una forma di aspirazione al successo che non vuole ammettersi tale e deve quindi giustificarsi extramusicalmente abbracciando l’etica progressista)

Ma perché allora la trap ci appare inaccettabile, di solito, da un punto di vista morale? Perché non riusciamo – soprattutto i più grandi – ad accettarne il credo droga, crimine e soldi?
Tralasciando l’antica tradizione di questo credo (vedi già Beatles e Velvet Underground, o tutto il mondo psichedelico), penso che un punto centrale sia proprio nell’anagrafe. A produrre e ascoltare trap sono ragazzi nati in stragrande maggioranza dopo il crollo dell’URSS, e tra questi una grande fetta anche dopo Genova 2001 o l’attacco alle Torri Gemelle.

Il problema è infatti l’impossibilità culturale di immaginare un’alternativa politica, su cui si fondava invece il punk, pure sfrangiato in molte e varie forme. Come dire: rimane il desiderio di rottura, di rivolta, ma non sono sottomano gli strumenti per incanalarlo in un progetto politico, anche solo ideale.
In una dialettica che non è più quella della guerra fredda ma, al contrario, è tutta interna al sistema americano, l’unica alternativa concreta allo stato borghese appare la criminalità, cui la trap si rivolge in una forma nichilistica, autodistruttiva, in un barocco kitsch e allucinato. Effetto collaterale, cadere nel gioco dell’onnicommercializzazione effettuato dal capitalismo.

Il disco di Blanco – che musicalmente per alcuni aspetti mi piace, per altri meno – mi ha confermato questo, cioè che la trap ha tutte le carte in regola per funzionare come nuovo punk, occasione di coscienza collettiva antagonista, tranne una: la possibilità storica e culturale di immaginare l’alternativa.
Una rivoluzione tautologica, dunque, che nei momenti in cui tocca l’intimismo (e lo fa regolarmente, non per caso) svela più chiaramente la sua parabola implosiva, e affoga.