Quando conosco una nuova classe, comincio sempre con una domanda: “perché state qua dentro?”
Cascasse il mondo, le prime tre risposte sono sempre queste:
– perché mi obbligano
– per il lavoro
– per cultura generale
Quando faccio notare, con un po’ di cinismo, che all’ingresso non ho visto genitori col fucile, che si può lavorare anche senza studiare e che “cultura generale” non significa assolutamente nulla, non sanno che rispondere. Vanno nel panico.
Noi dobbiamo lavorare su questo panico. Che la destra stia al governo è l’ultima foglia caduta, una questione di formalità sopra la sostanza più solida, che è quella di un agire senza visione di scopo: studiare per obbligo, lavorare per obbligo. Sono sfavoriti gli spazi sociali in cui si interrogano il senso e le condizioni.
Ma la classe può essere una cellula politica, di umano che guarda l’umano, se sblocca un percorso di accorgimento di sé. E può esserlo radicalmente proprio perché quella è l’età dell’apprendimento e della rivalsa. Con la sinistra istituzionalmente inesistente, agire politicamente oggi vuol dire fabbricare armi di frantumazione ideologica – spazzare via la cultura lavorista, la costrizione e il sapere-per-il-sapere borghese delle risposte sopra – e aprire spazi di discussione e immaginazione. Fuori dal centro, nelle zone di margine, nelle aule, nelle assemblee, faccia a faccia con le persone.
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Il consumismo come datore di lavoro
Adesso immagino il consumismo come un datore di lavoro, un datore di lavoro invisibile simile a quello di Glovo o Deliveroo: ci assume, ci dà delle coordinate tramite un algoritmo e assegna come mansione quella di acquistare. Questo lavoro ci impegna a ogni ora. Non solo: ci piace, perché ci permette di ordinare degli oggetti che arrivano ben impacchettati in cartone robusto. Psicologicamente, risolta la questione lavoro, abbiamo risolto la paura di non avere posto del mondo e quella di sentire l’urto della vita se rimaniamo inoperosi. Da questa prospettiva, che presa può avere su di noi essere chiamati alle urne, mettiamo, un 25 settembre? Che presa può avere l’idea di modificare qualcosa se sono assunto, impegnato, sazio? La generale sfiducia verso le elezioni è tale perché la partita – la partita politica, proprio – si svolge altrove.
Sulla trap (italiana) e la rivoluzione tautologica
Se guardiamo ancora alla musica (“pop”) come più diretto dispositivo di costruzione di una coscienza collettiva antagonista, mi sembra che la trap sia ad ora l’unico ambito in Italia in cui è possibile tracciare una spinta punk, anarcoide o comunque riottosa di risposta al nostro tempo; quantomeno quello più vivace in questo senso. Non parlo qui di risultati estetici, visto che – come in tutti i generi – possiamo trovare cose ottime o buone (a me piacciono molto tha Supreme e Speranza, ad esempio) ma anche cose pessime (tantissime, ahimè).
Gli altri ambiti infatti – e anche qui non parlo di risultati estetici validi in senso stretto, che possono ritrovarsi dappertutto – in linea di massima sono:
– o semplicemente commerciali (cioè integrati al mercato, dunque innocui)
– o meramente revivalistici (alla Greta Van Fleet)
– o di nicchia ristretta (e quindi incapaci di sollevare un’onda importante come fecero a loro tempo punk, grunge, ecc.)
– o nevrotici (come l’indie, ormai palesemente una forma di aspirazione al successo che non vuole ammettersi tale e deve quindi giustificarsi extramusicalmente abbracciando l’etica progressista)
Ma perché allora la trap ci appare inaccettabile, di solito, da un punto di vista morale? Perché non riusciamo – soprattutto i più grandi – ad accettarne il credo droga, crimine e soldi?
Tralasciando l’antica tradizione di questo credo (vedi già Beatles e Velvet Underground, o tutto il mondo psichedelico), penso che un punto centrale sia proprio nell’anagrafe. A produrre e ascoltare trap sono ragazzi nati in stragrande maggioranza dopo il crollo dell’URSS, e tra questi una grande fetta anche dopo Genova 2001 o l’attacco alle Torri Gemelle.
Il problema è infatti l’impossibilità culturale di immaginare un’alternativa politica, su cui si fondava invece il punk, pure sfrangiato in molte e varie forme. Come dire: rimane il desiderio di rottura, di rivolta, ma non sono sottomano gli strumenti per incanalarlo in un progetto politico, anche solo ideale.
In una dialettica che non è più quella della guerra fredda ma, al contrario, è tutta interna al sistema americano, l’unica alternativa concreta allo stato borghese appare la criminalità, cui la trap si rivolge in una forma nichilistica, autodistruttiva, in un barocco kitsch e allucinato. Effetto collaterale, cadere nel gioco dell’onnicommercializzazione effettuato dal capitalismo.
Il disco di Blanco – che musicalmente per alcuni aspetti mi piace, per altri meno – mi ha confermato questo, cioè che la trap ha tutte le carte in regola per funzionare come nuovo punk, occasione di coscienza collettiva antagonista, tranne una: la possibilità storica e culturale di immaginare l’alternativa.
Una rivoluzione tautologica, dunque, che nei momenti in cui tocca l’intimismo (e lo fa regolarmente, non per caso) svela più chiaramente la sua parabola implosiva, e affoga.
Un contro-Dantedì in occasione del Dantedì
Quello che meno mi sembra ci ricordiamo di Dante è l’aspetto corrosivo, fustigatore, squilibrato della sua poesia. Non mi riferisco alla straordinaria eterogeneità del suo linguaggio – che pure fa parte del gioco; ma Sanguineti, Eliot, il miglior fabbro… insomma, sappiamo – bensì all’operazione poetica generale che mette in campo: chiamare l’inferno. Che è un inferno oltremondano, terribile, ma – si sa – anche allegorico, quindi terreno, politico, egualmente terribile.
L’inferno – terreno e ultraterreno – è chiamato attraverso la poesia. La poesia è la tecnica di interpretazione della realtà e del suo spessore, quindi anche dell’irrealtà; e contemporaneamente è la tecnica del riscatto, dell’interpretazione dell’esilio, della denuncia nuda e cruda. Nomi e cognomi.
Io (semplice osservatore, vecchio precoce sempre insoddisfatto) temo, temo moltissimo che la poesia si soffochi in se stessa. Gli amici mi dicono: tu scrivi, non ci pensare. E sicuramente sono più saggi di me. Ma il panorama per me è spesso odioso, e una poesia che troppe volte ormai significa fotocopia di sé, missione Amazon, reduplicazione ad libitum della propria masturbatoria vanità, vetrina Instagram, mi fa incazzare a bestia. Perché ci sto dentro anche io, è chiaro. Oggi – neanche le commemorazioni mi piacciono tanto, in realtà, specie quando si esplicano nell’hashtag – oggi, dico, Dante mi ricorda che la poesia è incanto, sì, ma magmatico, ustionante; è questione immaginifica, ma anche politica.
È dire una cosa.