…ad esempio pensando i luoghi come contraddizioni in essere. Come Sofia, che è slava, e romana, e turca, greca, russa, sovietica, post-sovietica. Credo che il valore del viaggio (anche se il nostro è più che altro teletrasporto + collezionismo; ma di questo riparlerò) sia scoprire i terremoti delle città, più che la loro appagante, venduta integrità
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Tre o quattromila abitanti
Finora il caso ha voluto che io abitassi solo paesi di tre o quattromila abitanti. Vicovaro, Menaggio, Fossalta. La città l’ho vissuta da studente, da turista, da nomade; e per chi viene dalla mia stessa realtà abitare rimane un fatto di piccola piazza o quattro gradini fuori la porta. Provare a nascondere questo – per vergogna, magari – è tradire.
Andiamo veloci verso la smart city. Farinelli scrive: «la città globale, all’interno del cui congegno spazio e tempo non spiegano ormai quasi più nulla, e l’apparenza topografica, il visibile è una spoglia dalla quale non si ricava più nulla di plausibile e concreto circa il funzionamento del mondo.»
E la smart city è infatti qualcosa che non si tocca, un meccanismo oliato e nascosto, l’interconnessione aerea.
Ma la maggior parte di internet passa in cavi d’acciaio sottomarini, non tra i satelliti, e con quattromila anime affianco – solo quelle – senti ogni ruota, qualcosa che scotta.
Un amico mi ha detto una volta: “l’unica cosa che si può fare al paese è terrorizzarsi”. E aveva ragione, perché può essere tremendo. Ma quanto questo spavento mi sembra fiero, ancora, di fronte alla città sottocutanea; questa tenacia a farsi contro la storia, se la storia è logora – da reliquia ad alternativa. Ci sono nei paesi queste ragioni: che il luogo è più dello spazio; che il difficile è meglio del facile; che niente è facile davvero.
Non un volantinaggio poetico
Un avvistamento dell’amico Tonino – una poesia-manifesto appesa al muro – mi offre il gancio per un appunto su Spore: Spore non è volantinaggio poetico (cosa dignitosissima e divertente, non mi si fraintenda, che tra l’altro ho fatto anche io qualche anno fa), ma qualcosa che ha a che fare con l’alterazione, la manomissione.
La poesia-manifesto gioca sull’impatto: dove non ti aspetti la poesia ne trovi una, e funziona proprio perché si mostra e si fa leggere. Le Spore invece sono foglietti chiusi e infilati nella spaccatura degli intonaci, nelle grondaie, negli infissi: giocano quindi sulla presenza non vista, una poesia fuori posto che entra però nel tessuto della microarchitettura e funziona proprio in quanto non manifesta, non necessariamente letta (e i testi che contengono sono per giunta molto strambi, lasciano il lettore perplesso).
Questo implica che un buon 70-80% delle Spore marcirà senza essere mai letto.
Si apre così un discorso sulla testualità effimera accanto a quello sull’ipertrofia linguistica. Partendo proprio da testi già esistenti (le Spore sono in gran parte commistioni di stralci di libri, programmi TV, post social, cartelli stradali, giornali, ecc.), l’obbiettivo non è l’impatto patente ma la costruzione di un ambiente che silenziosamente sproloquia, di un linguaggio-cosa che altera di un millimetro appena l’identità e la storia di una città.