La cura è la malattia, e viceversa

Nella Coscienza, Zeno si proclama guarito e contestualmente dichiara che a essere malata è l’umanità intera; dice che interromperà la terapia (che è la scrittura) ma lo fa scrivendo ancora una volta. Ne Il buio e il miele Vincenzo, malato, parte per ammazzarsi e alla fine ammazza. In Laborintus I leggiamo «palus putredinis» e «aria inquinata» ma anche «dove soprattutto vedete igienicamente nell’acqua antifermentativa». Palazzeschi spera per la fontana malata «qualcosa / per farla / finire / magari… / magari / morire», per poi pentirsi subito: «Madonna! / Gesù! / Non più!». Balestrini scrive: «godiamoci il viaggio, / godiamoci, non c’è pericolo se ci perdiamo, tanto non si viaggia / (il profilo di un paziente su un carrello attraversando la carestia), / tanto non si arriva, arriveremo». Corazzini: «Io l’amo perché so / che croce fu dolore». Leopardi: «naufragar m’è dolce in questo mare». Villa: «ogni rovina paragona allo spirito immune». Magrelli: «Solo di questa interminabile / cattività so scrivere / e scrivendo infittisce / la trama del mio carcere».

La letteratura ci è necessaria perché è l’unica dimensione in cui la cura coincide con la malattia. Gozzano la chiama «tabe letteraria». Nel momento in cui comincia il glitch, il tarlo, il paziente e il medico si guardano, ma nello specchio; e che la cura voglia uccidere la malattia così come la malattia vuole uccidere la cura, significa solo puntare a eliminare l’altro che è in noi e che abbiamo scoperto, il farmaco che ci vuole risolti o la malattia che ci vuole distrutti. Ma si manca sistematicamente il bersaglio, perché l’altro che è in noi siamo noi, e ci svela cose ignote, preziose o almeno inquiete, cioè la malattia che la cura non riesce a essere, e viceversa. In questo modo si fallisce – cioè si scrive e si scrive.