Diario del disco. Loveless (1991) – my bloody valentine

Intendo i my bloody valentine così: il gruppo che ha scoperto che tutto può essere tirato fuori da una chitarra. E se fino a “Isn’t anything” (1989) resistevano ancora impalcature derivate dal post-punk, con “Loveless” (1991) quelle impalcature si piegano del tutto, la canzone diventa una deformazione della realtà, zona in cui si aprono onde, si lasciano entrare feedback, batterie sintetiche e voci disincarnate. Una stanza di soli specchi, tutto che si riflette e riverbera.

Diario del disco. Cluster & Eno (1977) – Brian Eno, Cluster

Uno dei miei preferiti della sterminata discografia di Brian Eno. Cluster & Eno (1977) fa parte di quegli esperimenti di ibridazione eniani che ha come capostipite (No Pussyfooting) del ’73, composto insieme a Fripp. Qui Eno ha già toccato il nervo dell’ambient (cfr. Another green world, Discreet music, entrambi del ’75), ma ancora non l’ha portato al minimalismo assoluto di Music for airports. Ragion per cui si assiste a qualcosa di sospeso ma ancora materico, tangibile, qualcosa di ancora musicale, su cui il deragliamento cosmico-industriale dei Cluster può compiersi. Un’esplosione in vitro, in certo senso, fuochi che si aprono nel cielo, e noi spettatori lontani.

Diario del disco. Scenderemo nelle strade (1982, EP) – Nabat

Più volte mi è capitato di scrivere del cortocircuito contemporaneo tra musica e antagonismo (ad esempio nel pezzo che trovate nei commenti). E perciò più invecchio più guardo a dischi come Scenderemo nelle strade (1982) come a verdi aurore boreali. Negli album successivi apriranno al blues e al reggae, o all’oi! di ritorno, più pulito; ma nel primo EP i Nabat erano davvero ciò la musica non riesce più a essere: una sommossa, un coltello tra i denti, lo strumento proletario. Politicamente non ne ho mai condiviso il nichilistaggio, ma qui si sente ancora oggi il magma.

Diario del disco. Linea gotica (1996) – C.S.I.

Una volta ho letto che Ferretti non è una voce ma una situazione. Una prova io la vedo nel secondo preciso in cui dice che si alzano i roghi al cielo: è un clic definitivo nel cervello, dopo la prima volta non si torna più indietro. Linea gotica (1996) è forse l’album italiano a cui più sono legato: ci si rimane incastrati, ci si torna necessariamente ogni tot con rabbia malinconica, l’irata sensazione, la storia celeste per terra e bruciata, violini + fuzz, la cattedrale del punk.

Diario del disco. Il vile (1996) – Marlene Kuntz

Il disco di oggi non poteva che essere dei Marlene Kuntz. Anche se Catartica (1994) rimane il più iconico (e forse il più bello, dai), ho sempre avuto un debole per Il vile (1996). Perché se il primo manteneva anche un certo incanto, una certa chiarezza, questo è un album frustrato, nero, psicotico, di Sonic Youth italianissimi fatti di feedback e soundscapes inabitabili ma anche, adesso, scatti nervosi, spigoli, squallore. Compaiono personaggi irredimibili, «cenere su cenere», colpi secchi senza eco. È una notizia assurda. Per ricordare Luca Bergia oggi dobbiamo ascoltare Ape regina.

Diario del disco. The Smiths (1984) – The Smiths

Il primo, omonimo, disco degli Smiths, marca già le distanze tra la band di Manchester e l’andazzo generale della musica pop degli anni ’80: il sistema della dance e del synth pop, in generale il ricorso a un tipo di elettronica considerata patinante viene respinto in toto, e l’attività originaria di Morrissey e compagni è quella di ricostruire una certa forza tagliente del rock, senza per questo approdare né al prodotto confezionato di molto hard rock, né agli sperimentalismi estremi d’oltremanica (ad esempio dei Sonic Youth, cui spesso – ma solo in termini di rivalsa e innovazione, non in termini strettamente estetici – vengono associati).
Lo stile degli Smiths, quindi, ha l’asperità di chitarre che si riscoprono sporche al di fuori delle morbidezze di molta new wave o synth pop e insieme si rifanno figlie del folk (con tanto di armonica, in Hand in glove). Eppure la forma-canzone sostanzialmente sabotata (in maniera sottile: strutture melodiche effimere nella loro non ricorrenza o scarsa ricorrenza), la voce di Morrissey onirica, ipnotica, esotica (This charming man) fondano un’idea di melodia coinvolgente e insieme freschissima, energica (non senza incursioni punk, in Miserable lie) che si unisce a una nuova narratività – quella di mondi e amori ai margini, tra la città e la poesia cimiteriale inglese.

Diario del disco. SxM (1994) – Sangue Misto

Forse il disco più riuscito, iconico, dell’intera storia del rap italiano. Giocate sulla perfetta intesa di talenti e posizioni dei tre membri del gruppo, le tracce di SxM sono costruite sui controcanti di Deda e Neffa (più roccioso il primo, più liquido il secondo), che si innestano sulle basi di Dj Gruff (in un paio di occasioni anche MC). Queste sono basi dalla solida e piena architettura di bassi, attraversata perpendicolarmente da sottili venature che vanno a formare il “canto solista” (la sirena) della struttura sonora. In questa massa compatta, scura, SxM traccia tematicamente un’anti-epica di strada, scenari in cui si contrastano posture etiche e politiche monolitiche e inconciliabili – quella di un Potere pervasivo (le «iene»), ingannatore e sfruttatore, cui si oppongono i Cani sciolti, l’anti-sistema, il THC come scarto psicologico-morale dalla norma, la percezione e quindi denuncia di un perpetuo e soffocante «stato di minaccia». Un modo di intendere il rap che sembra lontano anni luce dall’ostentazione e dal barocco di molte soluzioni successive (degli anni ’10, ad esempio) e che vede nel flow un cerimoniale identitario, da una parte, uno strumento di protesta e presa di coscienza politica, dall’altra.

Diario del disco. Laughing Stock (1991) – Talk Talk

Considerato tra i dischi seminali del post-rock, Laughing stock è il grado massimo di astrazione musicale raggiunto dai Talk Talk. Gli esordi ruotanti attorno alla scena synth pop sono ormai del tutto attraversati e metabolizzati (i dischi centrali della discografia del gruppo avevano questo compito di rottura dall’interno del genere, secondo un percorso di progressiva apertura di spazi e scioglimento della compattezza sonora che caratterizzava Party’s over), e anche i rimasugli strutturali di Spirit of Eden setacciati, ulteriormente smagati. Laughing stock è un disco infatti interamente catapultato in una concezione del suono come ambiente: gli archi, i fiati, i piatti, gli arpeggi, la voce distesa di Hollis sono gli strumenti di fondazione di brani-spazio, oltre la soglia della cosiddetta forma-canzone. Eppure – introiettando anche certe soluzioni del jazz – Laughing stock non si risolve del tutto in un ambient alla Eno, completo vapore; la diluzione dei pezzi dei Talk Talk nasconde una vena inquieta che non viene del tutto soffocata, ed è anzi tessuta con la parte più dolcemente armonica della stratificazione compositiva. Ne emergono, o meglio, vengono allusi e lievemente additati nella loro sommersione, minimi scarti, intervalli ravvicinati, cromatismi e loop (Taphead) che svelano come il flusso sonoro raggiunto dal gruppo all’apice della carriera sia tutt’altro che unidirezionale e monolitico. Come la compattezza sonora li aveva caratterizzati al disco d’esordio, così qui i Talk Talk progettano, dopo la decostruzione, una compattezza nuova e fluida che se analizzata svela la complessità della propria leggerezza, la gamma ricchissima di soluzioni di cui è composta. Un disco immersivo, in grado però di collocare la sfasatura e la dissonanza dentro la più spontanea eleganza.