Periferie e interessi

Alcune cose nelle zone periferiche non arrivano proprio. Ho iniziato a leggere poesia contemporanea a università inoltrata e i gusti musicali “altri” vanno puntualmente giustificati (poi quasi mai avviene con successo). Contrariamente a quanto si pensa, internet lima questo problema molto debolmente, perché ciò che manca è un tessuto sociale che possa far crescere, condividendoli, determinati interessi o idee. Quindi alla fine almeno in parte ti pieghi, perché più degli interessi pesa la paura della solitudine. Ad esempio Vicovaro è socialmente devastato e di questo parlano in pochi. Ce lo teniamo come rimosso collettivo per non guardare in faccia il fatto che quasi non esistono spazi di aggregazione e proprio non esistono spazi di aggregazione “altri”. Ugualmente molti paesi. Questo per dire che nascere dentro la città è un privilegio enorme.

Tre o quattromila abitanti

Finora il caso ha voluto che io abitassi solo paesi di tre o quattromila abitanti. Vicovaro, Menaggio, Fossalta. La città l’ho vissuta da studente, da turista, da nomade; e per chi viene dalla mia stessa realtà abitare rimane un fatto di piccola piazza o quattro gradini fuori la porta. Provare a nascondere questo – per vergogna, magari – è tradire.

Andiamo veloci verso la smart city. Farinelli scrive: «la città globale, all’interno del cui congegno spazio e tempo non spiegano ormai quasi più nulla, e l’apparenza topografica, il visibile è una spoglia dalla quale non si ricava più nulla di plausibile e concreto circa il funzionamento del mondo.»
E la smart city è infatti qualcosa che non si tocca, un meccanismo oliato e nascosto, l’interconnessione aerea.
Ma la maggior parte di internet passa in cavi d’acciaio sottomarini, non tra i satelliti, e con quattromila anime affianco – solo quelle – senti ogni ruota, qualcosa che scotta.

Un amico mi ha detto una volta: “l’unica cosa che si può fare al paese è terrorizzarsi”. E aveva ragione, perché può essere tremendo. Ma quanto questo spavento mi sembra fiero, ancora, di fronte alla città sottocutanea; questa tenacia a farsi contro la storia, se la storia è logora – da reliquia ad alternativa. Ci sono nei paesi queste ragioni: che il luogo è più dello spazio; che il difficile è meglio del facile; che niente è facile davvero.

Instagram e l’asfissia

Un’altra caratteristica di Instagram – ebbene sì: averlo, adesso, non mi farà cambiare idea; anzi, finora solo conferme – è che si tratta di un luogo tremendamente asfittico.

Al netto dei suoi problemi (che ha, è chiaro, come tutti i social), Facebook è un ambiente di gran lunga più abitabile, con la possibilità che offre di creare nicchie, community, gruppi di discussione, thread e subthread nei commenti, e così via.

Con i pochi spazi che apre (home, reels, storie, profilo) e anche con la costruzione della home come flusso ininterrotto (post non separati e commenti relegati a un angolo: nei primi momenti facevo davvero fatica a distinguere un contenuto dall’altro), Instagram è invece una sorta di monolocale con balcone, dove passi senza tregua dalla sedia al divano.
Un posto fatto per sbatterti in faccia l’algoritmo, altroché; e non rendersene conto è davvero difficile.